sabato 12 settembre 2015

Duro scontro tra Altroconsumo e Federbio


Il mensile, che fa parte di un gruppo lussemburghese, periodicamente si occupa dell'agricoltura organica ma, secondo Federbio, "con atteggiamento che va dal disinformato al prevenuto". La copertina di settembre 2015, "non crediamo in bio", non è proprio andata giù al mondo biologico.

Periodicamente il mensile Altroconsumo, pubblicato dalla Altroconsumo Edizioni srl, parte del gruppo editoriale e finanziario di diritto lussemburghese Euroconsumers SA (SA sta per Société anonyme) si occupa di biologico. In genere lo fa prima di SANA e con atteggiamento che va dal disinformato al prevenuto; gli dedica anche la copertina del numero di settembre 2015 (titolo: “Non crediamo in bio”).

È costretto ad ammettere “L’agricoltura biologica può vantare indubbi vantaggi per l’ambiente”, salvo aggiungere subito “ma non sempre i prodotti bio sono complessivamente più sostenibili di quelli tradizionali”. Il perché? I pomodorini bio (solo loro? quelli convenzionali si materializzano a distanza?) “devono viaggiare su mezzi refrigerati: l’impatto ambientale del trasporto è molto importante”, per fortuna ci illumina “se sono a km zero e fuori serra, i pomodorini bio potrebbero essere più sostenibili”.
Come nel passato, Altroconsumo ci è (o ci fa).
Sostiene “Ciò non significa che [ i “pesticidi chimici” e i “fertilizzanti sintetici”] siano sempre e in assoluto vietati: per esempio, in caso di rischio per la coltura l’uso di prodotti fitosanitari è autorizzato”.
Ignora (dimentica?) che la normativa europea prevede sì che “in caso di determinazione di grave rischio per una coltura, l’uso di prodotti fitosanitari è ammesso”, ma con il non ininfluente dettaglio “solo se tali prodotti sono stati autorizzati per essere impiegati nella produzione biologica”.
I mezzi tecnici ammessi per gli agricoltori biologici sono gli estratti dalle piante del neem, della quassia amara e del Chrysanthemum cinerariaefolium (una sorta di margheritina dai cui capolini essiccati e macinati si ricava un efficace insetticida naturale), la cera d’api, la lecitina, gli oli vegetali, i sali di rame (non più di 6 chili per anno su un ettaro), lo zolfo: tutte sostanze che nulla hanno a che fare con i 75 milioni di chili di anticrittogamici di sintesi, i 27 milioni di chili di diserbanti, i 25 milioni di chili di insetticidi e i 19 milioni di chili di altri pesticidi di sintesi sparsi in un anno sui campi italiani.
Non si trattasse di Altroconsumo avremmo il sospetto che si vuole ciurlare sul manico, mettendo sullo stesso piano cera d’api, margheritine e DDT.
La rivista che fa capo alla società anonima lussemburghese continua: “Schiere di studiosi hanno passato al setaccio pere, pesche, mele, kiwi, fragole, ma ache pomodori, carote, patate, alla ricerca delle più significative differenze nutrizionali tra alimenti bio e non. Un dato emerge con costanza da queste ricerche: il contenuto di antiossidanti è maggiore nei vegetali bio”.
Sembra, insomma, arrendersi alle risultanze delle ricerche scientifiche svolte nelle università di mezzo mondo (ne trovate una settantina nel libro ”Biologico, la parola alla scienza”), che concludono, per esempio:«Gli studi sugli animali, così come quelli in vitro, hanno mostrato una chiara indicazione di un effetto benefico degli alimenti biologici e dei loro estratti rispetto a quelli convenzionali»; «Studi in vitro hanno mostrato negli alimenti di produzione biologica una maggiore attività antiossidante e antimutagenica, nonchè una migliore inibizione della proliferazione delle cellule tumorali»; «Si può concludere che gli alimenti vegetali ottenuti con metodo biologico hanno un valore nutrizionale più elevato rispetto a quelli convenzionali, compresa la presenza di antiossidanti» e così via.
Il motivo delle differenze nutrizionali, specifica la rivista “sembrerebbe legato alla minor presenza di azoto nella coltivazione biologica, grazie alla progressiva riduzione in questi anni della quantità di letame utilizzata come fertilizzante”.
Dove Altroconsumo abbia tratto l’informazione della progressiva riduzione dell’uso del letame come fertilizzante è ignoto: nel 2009 erano allevati con metodo biologico 185.000 bovini, nel 2014 erano 223.000; nel 2009 avevamo 2milioni 400 mila polli, nel 2014 ne avevamo 3milioni 490 mila, le cui deiezioni, fortunatamente, non si sono dissolte in aria, ma son state fieramente usate nel 2009 su 1 milione di ettari, nel 2014 su 1 milione 390 mila, assieme ad altro letame da allevamenti estensivi, a sovesci e ad altra materia organica debitamente compostata.
Nello stesso articolo in cui scrive “Un dato emerge con costanza da queste ricerche: il contenuto di antiossidanti è maggiore nei vegetali bio”, la rivista prosegue: “I prodotti bio in commercio non possono quindi vantare un apporto nutritivo maggiore, checché ne dicano i loro sfegatati supporter. Attenzione, però: ciò non significa che non ci siano differenze per esempio tra la tal mela bio e la talaltra non bio”.
La sua sicurezza, che butta nel cestino i lavori scientifici di “schiere di studiosi”, deriva dall’aver prelevato a punto vendita e fatto analizzare “circa cento campioni di frutta e verdura” (non lo precisa, ma presumiamo metà biologici e metà convenzionali) e da ciò elaborare la sua tesi.
Ignoriamo a quale laboratorio si sia rivolta per le prove la rivista che fa capo alla società anonima lussemburghese e, quindi, se tale laboratorio è accreditato (aziende e organismi di controllo del settore biologico sono tenute a ricorrere solo a laboratori accreditati, gli unici che forniscono referti con validità legale).
Se si tratta del laboratorio milanese Conal, cui Altroconsumo si rivolge di frequente, le sue prove sotto accreditamento comprendono gli abiti per bambini, gli aiuti di galleggiamento per l’apprendimento delle tecniche di nuoto, altalene, scivoli e giochi d’attività similari, articoli da letto, letti a castello, trattieni succhietti e molto altro.
Le prove chimiche e microbiologiche sotto accreditamento per l’alimentare, però, non comprendono la determinazione dei residui di fitofarmaci, quella delle vitamine o delle sostanze antiossidanti. A dirla tutta, le prove che il laboratorio offre (sempre che sia quello utilizzato, Altroconsumo scorda di citarne il nome e non informa sui metodi di prova utilizzati) non sarebbero sufficienti a redigere una banale tabella nutrizionale.
Ma vuoi che per analisi su cui imbastire un articolo di prima pagina la rivista si sia rivolta a un laboratorio le cui prove non valgono?
I risultati delle analisi sulla decina di fragole, di carote, di mele e di pomodori effettuate fan sì che Altroconsumo ritenga di poter sostenere “Si tratta di prodotti che a livello nutrizionale sono assolutamente comparabili”.
Anzi, non è proprio così: “Se proprio si vuole essere pignoli, l’unico caso in cui si nota un certo scostamento fa pendere la bilancia a favore dei prodotti tradizionali. Riguarda la presenza di fosforo e potassio nelle fragole. Nonostante ci siano ricerche che descrivano come tendenzialmente più elevata nei prodotti di origine biologica, nelle fragole da noi acquistate si è verificato l’opposto”.
Ecco, sì, facciamo i pignoli. Secondo le analisi dell’ignoto laboratorio, il potassio nelle fragole bio è 1.281 mg/kg, contro i 1.611 nelle fragole convenzionali, il fosforo è 187 mg/kg rispetto a 217 mg/kg.
I consumi di riferimento giornalieri per vitamine e sali minerali fissati a livello europeo sono di 700 mg di fosforo e 2000 mg di potassio. Non si capisce perché far riferimento a potassio e fosforo per le fragole (il cui contenuto in acqua supera il 90%, cui si aggiungono 5 grammi abbondanti di zuccheri): si tratta di sali minerali che nelle fragole sono presenti in misura del tutto irrilevante e che non ne costituiscono certo il motivo d’acquisto (avete mai sentito dire “Mi dia mezzo chilo di fragole, perfavore, mi sento un po’ giù di potassio”?).
Uno sfortunato consumatore che dovesse assumere l’intero valore consigliato di potassio dalle fragole, dovrebbe consumarne 3,7 kg di biologiche o 3,2 kg di convenzionali; se fossero la sua unica fonte di fosforo, dovrebbe mangiarne 1,5 kg di biologiche o 1,2 kg di convenzionali.
Noi a questo consumatore suggeriremmo di consumare, piuttosto, 140 grammi di fagioli borlotti (così sistema il potassio) e un uovo (così copre il fabbisogno di fosforo, e gliene avanza pure un po’).
Non si trattasse di Altroconsumo avremmo il sospetto che si vuole ciurlare sul manico…
Traballa un po’ la dichiarazione “Anche sui pesticidi le nostre analisi non lesinano sorprese. È vero che confermano che nei prodotti convenzionali c’è una maggior presenza di residui di fitofarmaci. Ma -udite udite- le concentrazioni rilevate risultano di gran lunga inferiori, fino a cento volte!, ai limiti di legge (che sono già di per sé cautelativi per la salute)”.
Che sarà mai se le norme europee prevedono per gli alimenti per l’infanzia una soglia di residui di 0.01 ppm (il cosiddetto “inquinamento di fondo”, inevitabile), se numerose ricerche allertano su deficit neurologici nei bambini dovuti all’assunzione ante e post partum di anche ridotte quantità di pesticidi?
Tranquilli, son cautelativi per la salute, “Con due eccezioni, entrambe riguardanti campioni di fragole non bio acquistate a Roma (presso Super Elite e Conad), che sono risultati fuorilegge. In tutti e due i casi non solo il laboratorio ha rintracciato un pesticida (carbaril) non autorizzato per il trattamento delle fragole nel nostro Paese, ma il quantitativo riscontato superava anche il limite di tolleranza previsto per questo principio attivo”.
Che sarà mai, un po’ di residui di fitofarmaci oltre i limiti di legge per fitofarmaci che le norme europee impongono di classificare in etichetta come “molto tossico”, “tossico per il ciclo riproduttivo”, “nocivo”, “cancerogeno”, “mutageno”, “altamente tossico per gli organismi acquatici”, “pericoloso per l’ambiente”, “pericoloso per lo strato di ozono”?
Continua Altroconsumo: “Al contrario tutte le fragole bio sono risultate ”pulite”, se non fosse per la presenza inaspettata di un pesticida in un campione acquistato a Roma, nella catena Naturasì. Questa volta però i residui del fitofarmaco (Pymetrozine) sono risultati entro il limite massimo di tolleranza ammesso”.
Se il prodotto (non ammesso in agricoltura biologica) è “entro il limite massimo di tolleranza ammesso” significa che è presente in quantità inferiore a 0,01 ppm, che non solo equivale a 1 grammo per 100 tonnellate, ma è definito dalla legge come “contaminazione tecnicamente inevitabile” (inevitabile, il che sta a dire che non puoi proprio farci niente): gli agricoltori convenzionali, che coltivano circa il 90% della superficie agricola italiana, vi usano sostanze che, una volta nell’ambiente, possono raggiungere anche l’altro 10% di terreni, senza la minima responsabilità del produttore biologico: se le tracce di sostanze chimiche sono entro la soglia considerata “inquinamento di fondo” tecnicamente inevitabile (cioè quello che trovate anche nel vostro orto dietro a casa, anche se non avete mai spruzzato niente), il prodotto biologico è considerato regolare.
Se invece, si supera la soglia di 0,01 ppm (cioè più di 1 grammo di residuo per 100 tonnellate di pomodoro o di zucchine), anche se l’agricoltore biologico è assolutamente incolpevole e la responsabilità è esclusivamente degli agricoltori convenzionali che contaminano i campi altrui, gli viene ritirata la certificazione. Il concetto non è quello di “chi inquina paga”, ma quello di “chi viene inquinato paga”: è la legge, per quanto illogica.
Ma siamo uomini di mondo e ci rendiamo conto che è un ragionamento troppo complicato da capire e da spiegare.
Proviamo a fare un aiuto noi: il limite di residui dell’erbicida glifosate tollerato sui piselli convenzionali è di 10 ppm, cioè 1.000 volte superiore a quello di 0,01 ppm tollerato nei prodotti biologici per contaminazioni involontarie. Sì, 1000 volte.
“Se si varia frutta e verdura nella propria dieta si è meno esposti agli stessi pesticidi e si evita l’effetto accumulo. Se si lavano con cura sotto acqua corrente, si compie già una pulizia efficace. Se si sbucciano, si eliminano quasi del tutto i residui (ma si rinuncia anche a qualche fibra). Se si cuociono, gran parte dei pesticidi si degrada con il calore; purtroppo altri sono termoresistenti. L’acqua di cottura è meglio non riutilizzarla”.
Nella sua tristezza, il consiglio della rivista che fa capo alla società anonima lussemburghese è chiaro: cuocere sempre l’ortofrutta convenzionale (uva, fragole, insalata, cetrioli…), guai a far minestre, brodi e zuppe di verdura convenzionale (“L’acqua di cottura è meglio non riutilizzarla”).
Brrr. A voi sembra “normale” e accettabile coltivare (e acquistare) prodotti alimentari che dovete per forza sbucciare e cuocere (anche se, ricorda la rivista, alcuni pesticidi resistono anche alla cottura), per di più buttando l’acqua di cottura? E non è che il brodo andrà smaltito come rifiuto speciale?
Sulla sbucciatura, poi, ahimè, non ci siamo proprio: Altroconsumo sembra esser rimasto agli anni ’70, quando gli insetticidi erano prevalentemente “a pronto effetto”, a “effetto topico” o “per contatto” (cioè per farla semplice: il pesticida veniva spruzzato sull’albero e rimaneva su foglie e buccia, espletando la sua azione a livello locale, senza penetrare più di tanto all’interno del frutto).
Da anni, invece, la caratteristica dei pesticidi è di essere progettati con “effetto sistemico”: la molecola del pesticida attraverso le foglie, le radici o addirittura attraverso il trattamento del seme, penetra nel torrente circolatorio della pianta (il sistema linfatico) e da lì si distribuisce in tutte le parti della pianta) o citotropico (cioè i grado di penetrare nei tessuti prossimi al punto di applicazione).
L’effetto degli insetticidi sistemici può durare per mesi.
È evidente a uno studente del primo anno d’istituto professionale per l’agricoltura che sbucciare un frutto in cui l’insetticida sia presente non solo nella buccia, ma anche nel picciolo, nei semi e nella polpa è del tutto privo di senso (oltre che di una certa complessità nel caso dell’uva, delle prugne, delle albicocche, delle prugne, delle fragole e di tutti i piccoli frutti).
Poteva essere un’informazione utile per i lettori, peccato.
Magari la rivista che fa capo alla società anonima lussemburghese ne parlerà nel prossimo articolo contro il biologico che, se rispetta i suoi ritmi, ci toccherà leggere a settembre 2017.
di C. S.
pubblicato il 10 settembre 2015 in Tracce > Italia