Cenni storici
L’olivo è radicato da secoli nel territorio marchigiano e l’olivicoltura
marchigiana affonda le sue radici già in epoca romana.
Si parla dell’olio di oliva delle Marche e della sua qualità nel periodo medievale, più precisamente nel
periodo delle Signorie, quando “l’olio de Marchia” doveva essere separato dalle
altre produzioni similari per essere rivenduto ad un prezzo superiore in virtù
del suo colore e sapore. L’olio marchigiano veniva venduto ai commercianti
veneziani e a Firenze. Nel 1200 i dogi veneziani preferivano l’olio de Marchia
perché “bonis, dulcis et zalli”. Nel 1347 i lanaioli fiorentini importarono
dalle Marche ben 2500 orci di olio di oliva. Questa esportazione è continuata
fino alla metà del Seicento e il Botero, nelle sue Relazioni universali,
scrive: “La Marca abbonda di grani, olio e vino e ne manda copia grande
fora”.Tra il Seicento e il Settecento la coltivazione dell’olivo quasi
scomparve. Napoleone, negli anni 1811-1813, stabilì premi per tutti coloro che
avevano introdotto l’avvicendamento in agricoltura o avevano coltivato la
colza, o posto a dimora e allevato, per almeno 4 anni, 400 alberi d’olivo.
Nei primi decenni del Novecento si attua la vera mezzadria, concedendo ai
contadini la metà dei prodotti agricoli e ammettendoli alla comproprietà delle
scorte vive e morte; per quanto riguarda le olive, il mezzadro doveva
consegnarne al padrone, secondo molti patti colonici, fino all’80-85%. La
scomparsa della mezzadria ha portato a una ristrutturazione fondiaria
caratterizzata da una costante riduzione degli addetti in agricoltura, da una
meccanizzazione sempre più spinta e conseguente specializzazione produttiva.
Tale situazione ha causato la scomparsa del tipico seminativo arborato e
l’estirpazione di molti piantoni storici di olivo, che ostacolavano le
operazioni colturali. Alcuni esemplari sono rimasti, sparsi nei terreni a
seminativo, quali elementi caratterizzanti del paesaggio marchigiano, grazie
alla maggiore sensibilità di alcuni agricoltori.
A oggi la gestione di tale olivicoltura promiscua comporta elevati costi di
produzione. Negli ultimi 20-30 anni si è assistito pertanto a una graduale
sostituzione degli oliveti promiscui con nuovi impianti specializzati, in parte
di piccole dimensioni, per il consumo familiare, in parte per un’olivicoltura
da reddito volta al mercato.
Vige la regola del rispetto della tradizione, ma nell’ottica della
razionalizzazione delle pratiche colturali, della riduzione dei costi,
dell’aumento della produttività e del miglioramento qualitativo del prodotto.
Brevi notizie di
carattere etnografico
L’olivo era, ed è, tenuto in grande rispetto: non poteva essere abbattuto
se in produzione, ma solo se secco e, in occasione della nascita del
primogenito, ne veniva piantato un esemplare. Come pianta legata alla
tradizione cristiana, i suoi rami, benedetti, acquisivano la virtù di
proteggere le abitazioni da violenti temporali, se bruciati all’aperto, o i
campi dalle intemperie, se infilati su croci di canna il 3 maggio, giorno della
Santa Croce. Ed era ancora un ramo ad accompagnare il defunto nella bara, per
propiziare il perdono, mentre le nuove palme, benedette, sostituivano le
vecchie, che venivano bruciate con devozione e con la recita di preghiere: “la
palma benedetta vuole la casa netta”. Il suo legno, oltre che essere un ottimo
combustibile, era utilizzato per fabbricare piccoli crocifissi o gli acini del
rosario.
L’oliva era raccolta con la massima cura, compresa quella caduta
naturalmente. Quella non destinata alla molitura (oliva di Raggia e di San
Francesco) era preparata in salamoia, conservata con il sale in appositi
vasi di terracotta, lasciandola asciugare accanto al fuoco
per circa un mese, quindi condita con finocchio selvatico, buccia d’arancia
e mandorle.