Aldo Bonomi
Spero che, nell’euforia del successo di Expo, nessuno si offenda, facendone
un piccolo bilancio, se lo raccontiamo come un microcosmo dove per sei mesi si
è rappresentato il macrocosmo.
Mai tanti paesi del mondo avevano
partecipato ad una esposizione universale. È già un successo. Che smentisce i
tanti che, nell’epoca della rete e del virtuale che rende tutto accessibile e
vedibile, avevano profetizzato l’inattualità della fisicità prossima, che per
di più ti fa stare in coda per vedere.
L’adagio di fine secolo più globale-più
locale, ha segnato l’evento milanese nella forza elementare del “io c’ero”, “io
ci sono stato”, “l’ho visto”. Il tutto certificato da un selfie, naturalmente.
Se vogliamo ragionare di discontinuità dobbiamo scavare nella natura sociale e
politica dell’evento.
Gli Expo del passato erano eventi di un
primo popolo, le élite del primo mondo sviluppato, che parlava ad un secondo
popolo indicandogli la via della civilizzazione tecnologica e industriale.
Erano celebrazioni di potenza verso nazioni “arretrate” e fiere campionarie ad
uso interno del paese organizzatore, per le masse inserite nel ciclo fordista
dell’industrializzazione che veniva avanti.
Forse Shanghai è stato l’ultimo così
articolato, per celebrare la valenza geopolitica del turbocapitalismo cinese,
che diceva al mondo e al suo popolo “ci siamo anche noi”. Anche se il tema
“Better city, better life” introduceva riflessioni assai critiche sul modello
delle megalopoli.
Il tema di Milano era tutto fuorché
potente, nel suo evocare attraverso la metafora del cibo scarsità e fame e
processi di innovazione economica, sociale e culturale, per vivere nel mondo
globale. Tant’è che mi pare fuori luogo questa corsa di tanti a celebrarlo come
potenza “dell’italietta” che si fa primo popolo.
Senza nulla togliere alla giusta
rivendicazione e all’orgoglio dell’aver realizzato, nell’epoca della crisi
globale, un evento di incontro e confronto che riportava tutti sulla terra.
Intesa come terra madre del cibo e della conservazione e sopravvivenza del pianeta:
la potenza del limite altro dalla celebrazione della potenza della crescita.
Che rimanda al rapporto dialettico tra terra e territorio e al ritorno,
nell’economia del quaternario, al primario dell’agricoltura. Il che interroga
anche il concetto di territorio inteso come la costruzione sociale che insiste
sopra la terra con le forme dell’abitare, del lavorare e del fare impresa
dell’uomo. Temi evocati nella Carta di Milano, consegnata al Segretario
Generale dell’Onu, nel solco di messaggi epocali come l’enciclica papale, dai
Millenium Development Goals dell’Onu e dal summit di Cop 21 a Parigi sulla
governance dei cambiamenti climatici.
L’Expo di Milano è stato anche un
tassello inserito in questa riflessione epocale. Ma non dimentico che le Expo,
per loro natura, sono un evento forte della società dello spettacolo che
riescono e hanno successo se sincreticamente tengono assieme il tema e il parco
a tema. I tre luoghi emblematici che rimarranno, il Padiglione Zero, Padiglione
Italia e la sua mostra, avevano come traccia narrativa il tema dell’Expo
presente e spalmato anche nei padiglioni dei paesi, l’Albero della vita con le
sue luci e i suoi fuochi d’artificio è stato l’emblema del parco a tema e della
movida serale. Tutto si tiene. Purché nel fare un bilancio si tenga conto del
rapporto binario e sincretico tra segnali forti e segnali deboli.
L’Expo ha funzionato come una grande
macchina dell’economia dell’esperienza: è stato un magnete che ha lavorato
sulla base della potenza psicologica del meccanismo del “io c’ero”. Questo
produce segnali forti indiscutibili: si è ormai superato l’obiettivo dei 20
milioni di visitatori, interno al magnete degli alberghi hanno fatto il +60%,
le carte di credito +30%, i flussi di telefonia e reti +160%. Aggiungendo poi i
14 milioni che hanno guardato l’Albero della vita la cui immagine ha intasato
la rete, abbiamo tanti numeri che pesano sul Pil e l’indotto. A cui vanno
aggiunte anche, come segnali forti, le ricorrenti visite di capi di stato e di
star della società dello spettacolo.
I segnali deboli sono carsicamente sotto
traccia, non per importanza ma per magnitudo comunicativa. Più di ottomila
seminari e incontri durante Expo sul tema a cui si aggiungono le migliaia
organizzati sui territori e nelle scuole per andare ad Expo. I tanti incontri
tra le delegazioni estere e mondi delle imprese e dell’agricoltura, tutte le
Caritas del mondo convenute a Milano per porre il tema della fame, i contadini
mobilitati di Carlin Petrini e l’afflusso costante delle scuole e dei bambini
in una visita maieutica ai cambiamenti epocali sul tema del cibo e
dell’agricoltura.
Dei segnali forti ci si accinge a fare
un bilancio partendo dalla forza dei dati economici, il Pil. I segnali deboli,
che rimandano al Benessere equo e sostenibile (Bes), sono da valutare guardando
ai mutamenti del fare società e alla riflessioni sul modello di sviluppo che
verrà. Dalla green economy che sussume il limite ambientale e sociale nel
processo di accumulazione del capitalismo, che fa green society nel delineare
coscienza di luogo e qualità della vita, sino alla nuova questione sociale
globale, delle migrazioni dei profughi che fuggono da fame e guerre. Tutti temi
dell’agenda della Carta di Milano. Quanto riusciranno a trasformarsi in segnali
forti dipenderà dai tanti bambini e i tanti giovani che con le loro scuole
hanno invaso Expo.
Forse l’Expo di Milano un primo
risultato della discontinuità lo ha già ottenuto: gli Expo che verranno,
Kazakhstan e Dubai, avranno come tema questioni fondamentali come l’energia e
le connessioni della mente. Appaiono dunque tre temi come cibo, energia e
mente, che interrogano l’uomo e il suo futuro.
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